Sicuramente l'articolo che sto per proporvi, stimola e invoglia ad impegnarsi in maniera forse un po' piu' concreta affinche' si possa intervenire per un ambiente decisamente piu' verde.
Pero', una volta raggiunta la fine della lettura, c'e' una cosa che mi ha lasciato perplesso e che non voglio scrivere prima di aver riportato tutto il suo contenuto.
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Hana, sull'isola di Maui, è uno strano posto popolato da una comunità di expat alternativi. Che si dedicano all'agricoltura biologica, allo yoga e a godersi le buone vibrazioni della natura sacra delle Hawaii
Le onde dell'oceano si frangono con moto ipnotico mentre la venere yoga di Hana fa lezione con voce morbida. "Tenete la posizione finché il sole sorge sopra il cratere", dice inarcando le braccia a formare un cerchio ampio sopra la testa. Legge una poesia di Mary Oliver, canta un mantra e ci invita ad allungare i glutei in direzione di Hana. Chiudiamo gli occhi, solo in parte consapevoli del frusciare del vento tra le foglie dei banani. "È come avere un vaso di fiori in mezzo al cuore", afferma Erin Lindbergh, la yogini, a proposito della sensazione che nasce dal trascorrere una lenta mattina in un nirvana tropicale dove tutta la natura pare sotto l'effetto del Viagra. Quasi 40 anni fa suo nonno Charles A. Lindbergh si unì ai molti che rimasero incantati da Hana, sulla costa est dell'isola di Maui. Oggi è sepolto in una bara di eucalipto nella chiesa congregazionalista di Hoomau, a Kipahulu, non lontano dal centro di yoga della nipote. Come le masse di persone che a bordo di Mustang e PT Cruiser noleggiate affollano la Hana Highway per sfuggire dalla sterilità delle catene alberghiere e raggiungere l'"altra parte" di Maui, il leggendario nomade dei cieli era sempre alla ricerca della serenità, di un solenne senso di solitudine.
E così è sua nipote, che da poco si è trasferita alle Hawaii dal Montana. Per lei, questo angolo di paradiso, che 84 chilometri, 617 tornanti e 56 ponti a corsia unica dividono dalla città più vicina, ha del mana, "energia vitale". "C'è chi dice che Hana sia quasi terapeutica, come una tranquilla vibrazione che si percepisce", ha scritto Sunni Kaikala Hueu, originaria di Hana. Le vibrazioni qui possono essere decisamente profonde. In quale altro posto, a eccezione di Hana - con la sua mitica autostrada larga circa quanto un vialetto di provincia - è possibile imbattersi insieme in ingorghi di traffico e cascate segrete? E in quale altro posto eccentrici amanti della natura abitano case Post New Age costruite sugli alberi e fanno granite con delle pale azionate dai pedali delle biciclette, mentre dall'altra parte della strada, in una cucina comune, una minuta kapuna di circa 80 anni, in pantaloni rosa al ginocchio, pela taro bolliti con il metodo antico: usando una conchiglia opihi (tipo una nostra patella)? Venire da queste parti significa subire gli altissimi costi della Hana Highway (dove una libbra di caffè costa 28 dollari), ma optare per una delle isole più comunemente associate a centri commerciali, golf e piscine - con tanto di finti relitti di navi per i bambini - significherebbe perdere l'essenza di Hana: una fragile oasi nella cultura delle Hawaii.
Un esempio: poco lontano dall'Hotel Hana-Maui, un resort da 475 dollari a notte sul mare, un uomo chiamato Blondie (che tutto è tranne che biondo) siede in una capanna dal tetto di paglia, spiando l'oceano in cerca di increspature improvvise.
È un kilo ia: un esperto avvistatore di pesci. La capanna è la akule hale, un ritrovo di pescatori con pavimento di ghiaia e terra, dove un calendario è appeso al muro con una molletta da bucato. Tutti stanno aspettando l'arrivo dello sgombro, che segna l'inizio del hukilau: un'attività che prevede lo scambio di messaggi via cellulare, occhiali da sole Polaroid e l'impiego di barche a motore e a remi per spaventare i pesci e spingerli verso le reti. Quando gli akule arrivano è festa per tutta l'isola. Ma i pesci non sono che un pretesto per "scambiarsi storie", un'attività che è resa più memorabile dal consumo di numerose birre già prima di colazione. Altra storia emblematica: Burt Freeland, il locale impresario di pompe funebri, racconta di una telefonata che ha appena ricevuto dalla polizia: "Hanno chiesto alla zia il numero civico della sua abitazione, e lei ha risposto "non lo so". Non sapeva nemmeno di averne uno!".
Non conoscere il proprio indirizzo sembra un atteggiamento tipico ad Hana. E poi basta stare qui anche per poco tempo per adottare le credenze del luogo: "L'oceano è la nostra ghiacciaia", "La pianta di taro è un divino antenato", "Non voltate mai le spalle all'oceano, le correnti fredde possono uccidere, anche nelle giornate di sole". "Non è un posto per deboli di cuore", ribadisce più tardi Arabella Ark, un'eccentrica ceramista trasferitasi qui dalla California, e proprietaria del bed-and-breakfast dove ho preso alloggio. "O ti risucchia, o ti risputa fuori". Sono arrivata da Arabella di sera, schivando uccelli di myna, i piccioni della Hana Highway. La casa, un tempo dimora del dottore che curò Lindbergh, era circondata da gardenie tahitiane e da altre piante con piccole bacche che sembravano bijoux anni Quaranta: ho avuto l'impressione di entrare in un bouquet di fiori. Il giorno dopo mi ha dato un passaggio un'ereditiera, proprietaria di una cascata, che vive in una villa sull'oceano. Abbiamo sfrecciato insieme su una jeep fiammante e ci siamo fermate davanti alla sua serra di orchidee. Nel suo salotto, tra i mobili di Sam Maloof, si aggiravano delle improbabili galline (una ha anche deposto un uovo). Lei mi ha parlato con competenza della sanguinosa storia di questa regione, di secoli di battaglie tra i capi di Big Island (l'isola più grande delle Hawaii, che si chiama in realtà Hawaii, ndr) e di Maui per il controllo dei suoi tesori naturali.
"Hana è un vortice", dice prima di imbarcarsi su un aereo per New York dove l'aspetta l'inaugurazione di una mostra d'arte.
Comunque vivere in paradiso non sempre è facile. Nel portabagagli della sua auto Arabella Ark porta una radio a manovella, scarpe da ginnastica, una torcia e dei segnalatori luminosi per far fronte a ogni imprevisto durante le oltre due ore di guida sulla Hana Highway che un viaggio dal dentista o da "Costco" - un negozio all'ingrosso sull'"altro lato" - richiedono. Ogni anno spende mille dollari in insetticidi, per evitare che la sua deliziosa casa assomigli a un convegno di Templari Mistici con scorpioni e millepiedi. A volte, però, l'atmosfera tra ricchi expat e hawaiani (alcuni dei quali dividono capanne di 80 mq con una decina di parenti), può farsi molto tesa. Soprattutto nulla irrita i locali più della mancanza di rispetto per la terra. Su un'isola, la terra è un bene limitato. È ohana, è famiglia. È questo il motivo per cui Frank James Oliveira è in guerra con i turisti. È anche il motivo per cui il best seller Maui Revealed, the ultimate guidebook è stato ribattezzato dalla gente del posto "Maui oltraggiata". Questa guida rivela alcuni angoli idilliaci un tempo noti solo ai locali, alcuni dei quali si trovano in proprietà private. In particolare, a urtare Oliveira sono le pagine che vanno dalla 90 alla 92: un elogio della Blue Pool, la piscina azzurra, la maggior parte della quale sorge su un terreno della sua famiglia. "Ogni giorno arrivavano 400 auto e più, era una fila unica", lamenta Frank. La piscina, che ha fatto da sfondo al famoso servizio fotografico della pattinatrice/medaglia d'oro Katarina Witt per Playboy, è nascosta tra grandi rocce con all'orizzonte un oceano così blu da sembrare ritoccato con Photoshop. Non è solo l'abuso di un fragile ecosistema a irritare Frank, ma l'arroganza: "Ti dicono: ma veniamo dal Wisconsin! E io rispondo, hey, solo sette anni fa c'era Bill Clinton, e adesso c'è George W. Bush. Le cose cambiano...".
Per gli hawaiani, cascate e spiagge segrete non sono parchi acquatici, ma fanno parte di un antico sistema di suddivisione della terra chiamato
ahupuaa, secondo il quale le risorse naturali sono curate e sfruttate in appezzamenti a spicchio che vanno dall'oceano alla foresta. Fino a tempi relativamente recenti la cultura hawaiana veniva "usata e sfruttata per la sua valenza di intrattenimento", per dirla con le parole di Douglas Kahikina Chang, direttore dell'Hotel Hana-Maui da poco diventato il primo indigeno presidente dell'Ente turistico hawaiano. "Era una parodia, con tanto di ragazze hula al chiaro di luna e danze tribali attorno a finti luaus, party". Ma, per fortuna, oggi è possible farsi un'idea più genuina delle Hawaii.
Soprattutto ad Hana. Un pomeriggio mi sono seduta a parlare con Kamaui Aiona, direttore del Kahanu Garden, che fa parte del Giardino botanico tropicale nazionale e sorge a nord dell'aeroporto della città. Il giardino, che è aperto al pubblico, è una meraviglia etnobotanica fatta di piante indigene e "piante da canoa", ovvero trasportate qui da altre isole da navigatori polinesiani. All'interno sorge il
Piilanihale Heiau, la più grande rovina di un tempio antico nelle Hawaii, un muro di pietra lungo due volte e mezzo un campo da calcio. Il suo potere spirituale è testimoniato dal fatto che alcune delle sue pietre, trafugate dai visitatori, sono state rispedite indietro anonimamente. Il restauro delle secolari terrazze di taro della zona, poi, rappresenta un'iniziativa culturale emblematica. Secondo le leggende hawaiane, infatti, l'uomo nasce da questo vegetale. Durante una passeggiata guidata organizzata da Kipahulu Ohana, un gruppo noprofit che si dedica a riportare in vita le pratiche indigene hawaiane, compresa una fattoria biologica di taro, abbiamo osservato varie piante, imparando gli effetti lassativi delle noci kikui e le proprietà curative dei capelli dello zenzero awa puhi: "È così che la costosissima marca di prodotti Paul Mitchel ha fatto valanghe di soldi con gli shampoo", dice la guida. "Prima parlavamo poco della nostra cultura perché pensavamo che fosse il modo migliore per preservarla", chiarisce Sol Church, 30 anni, che addestra le guide. "Adesso invece sappiamo che per difenderla dobbiamo diffonderla". E appropriarsi delle tradizioni locali, per i neoresidenti stranieri sta diventando una tentazione forte. Stephan Reeve è un esempio. Ha consumato il suo ultimo pasto cucinato dieci anni fa a Mendocino e da allora questo guru dell'autosufficienza ha abbandonato la terraferma per dedicarsi alle Hawaii alla coltivazione di frutti tropicali, in particolare del durian, per la sua dieta crudista basata interamente su cibi che coltiva lui stesso.
Una cena ospiti da lui è costituita solo da frutti colti direttamente dagli alberi che Stephan coltiva sui suoi quattro ettari di proprietà. "Volevo lasciare gli Stati Uniti... e sono arrivato qui", dice con semplicità mentre raccogliamo e ci rimpinziamo di litchi incredibilmente gustosi. Reeve ha scelto Hana per la qualità dell'aria e l'assenza di fertilizzanti nel terreno. Il suo vicinato è formato da un ingegnere nucleare, un guru dell'elettronica, un riparatore di mulini a vento e Lowell Thomas Jr., ex vicegovernatore dell'Alaska che è anche un riconosciuto esperto di ovuli delle piante. Quando ha fame si allunga verso il frutto matkuching del Borneo e lo coglie camminando a piedi nudi sulla fresca, morbida copertura di arachidi che ha piantato per impedire la crescita di erbacce.
Cenare a base di frutta e noci coltivate da lui secondo Reeve è un'esperienza sensuale. Di fatto, uno sballo estetizzante che gli permette di esprimere il suo animo un po' narciso: "Quando si è qui, si tende a provare un senso di gratitudine, no?", nota con studiata nonchalance. Non rispondo, ma metto da parte il suo numero, in caso di Armageddon.
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A questo punto la mia impressione e':
- che questo e' un posto fatto e per soli ricconi;
- prima di spostarsi li, quale e' stata la loro "politica", quale e' stato il loro impatto sull'ambiente?
Se la risposta e' quella a cui sto pensando ora, vedo solo narcisismo ed egoismo.
E' facile, avendo soldi, appropiarsi di paradisi e non volerli condividere con nessuno per la paura che vengano intaccati.
Si dice nell'articolo che c'e' l'intenzione ad educare... quale miglior modo se non partendo dal punto di ospitare chi governa gli stati, proponendo un "soggiorno culturale"?
Gli argomenti che mi frullano nel cervello a riguardo del tema sono tanti, forse troppi.
Un blog non e' sufficiente per trattarli tutti. Ma grazie a Dio, con un blog, posso almeno informare sperando che qualcuno ogni tanto si soffermi e pensi.