Tuesday, January 29, 2008

UNO SPORT, UNA PASSIONE, UNA GROSSA MALINCONIA


La passione per il Subbuteo, "sport" famosissimo tra gli anni Sessanta e Ottanta, non è scomparsa: un attore londinese ce ne racconta la storia. Aneddoti e curiosità in punta di dito e di nostalgia


MILANO, 28 gennaio 2008 - "L’estetica del calcio non può che essere vintage. Il suo sentimento è la nostalgia, il suo strumento il Subbuteo". Daniel Tatarsky, attore londinese innamorato del mitico gioco del "calcio in punta di dito", dà voce a schiere di trenta-quaranta-cinquantenni che, soprattutto tra gli anni Sessanta e Ottanta, hanno consumato le ginocchia dei jeans ricreando le emozioni del pallone sui campi in tela verde del Subbuteo, tra omini fragili e porte sempre a rischio di essere calpestate. Questo libro, di cui può non piacerci solo la copertina (ma a quanto pare è una caratteristica della Isbn…), è di sicuro una chicca per intenditori e amanti del gioco, ma anche una finestra aperta su un mondo che i giochi delle ultime generazioni (Playstation, Xbox e simili) hanno mandato in pensione. Ma gli amanti del Subbuteo tengono duro e, grazie a eBay e a Internet, continua lo scambio di squadre, palloni, accessori. Per loro il libro di Tatarsky ha anche il sapore di una rivincita. Il saggio ricostruisce infatti la storia del Subbuteo, del suo inventore Peter Adolph - che lo chiamò così in omaggio a un falco che, da appassionato di uccelli, amava - e anche degli accessori che intere generazioni di bambini hanno desiderato, come i fari da stadio che facevano così poca luce eppure erano straordinariamente scenografici. Molto centrato sull’Inghilterra, patria del calcio così come del suo emulo digitale (nel senso non di elettronico, ma di giocato con le dita), il libro parla al pubblico italiano soprattutto attraverso le immagini e l’anedottica. Due elementi che travalicano i confini nazionali e, a differenza di molti aspetti tipicamente inglesi presenti nel racconto di Tatarsky, mettono d’accordo tutti gli amanti del Subbuteo.





NOSTALGIA – E forse il vertice di nostalgia si raggiunge proprio quando ci troviamo di fronte al tabellone che riproduce le divise di tutte le squadre disponibili: "Non servono parole - scrive Tatarsky nella didascalia dell’immagine - per descrivere la sua multiforme bellezza". Molti gli aspetti curiosi su cui l’attore londinese indaga: dai giochi che precedettero il Subbuteo - su tutti il surreale calcio giocato soffiando la pallina verso una porta - fino alle fiction basate sul gioco, passando per gli accessori più sfortunati (come il team di giocatori in allenamento) e le leggendarie e inarrivabili scatole di lusso (come la "Munich" o l’incredibile "Stadium Edition", disponibile anche in Italia) che molti ragazzi potevano solo sognare sfogliando le pagine dei cataloghi Subbuteo, una lettura obbligatoria per milioni di appassionati. Interessante anche la sezione dedicata ai giochi emuli del Subbuteo, con altri sport molto british come il rugby e il cricket. A noi italiani, e pure a Tatarsky, sfugge un po’ il senso di queste varianti, ma non c’è dubbio che sia un’altra testimonianza di come il Subbuteo sia stato un grande fenomeno di massa. La cui estetica, oggi apparentemente superata, continua a parlarci di ciò che siamo stati: in una maniera che, nonostante l’elettronica, non perde di fascino.

TESTIMONIAL -
Uno dei piaceri del Subbuteo era far finta di essere il proprio campione o la propria squadra preferita, ma era una gran gioia anche sentire di famosi calciatori che giocavano a Subbuteo. Quando il 3 luglio del 1996 Paolo Di Canio passò dal Milan al Celtic per 900.000 sterline (l'equivalente di 450.000 squadre da Subbuteo), l'unica cosa che sapeva della squadra era che giocava con una casacca a righe verdi e bianche. Questo perché da bambino aveva comprato la squadra da Subbuteo del Celtic. Nell'autobiografia di Denis Law (2003), c'è una foto di lui all'età di 11 anni che riceve un trofeo di Subbuteo. Comunque il primo a ulilizzare il testimonial fu il principale rivale della Subbuteo negli anni Cinquanta e Sessanta, Newfooty. Secondo le pubblicità di allora, calciatori come Nat Lofthouse e Sir Stanley Matthews giocavano a Newfooty. Matthews affermava che era "pieno di situazioni da calcio vero". Anche veri allenatori di calcio ci giocavano e molti usavano un campo da Subbuteo per mostrare alla squadra cosa avrebbe dovuto fare. Si racconta che una volta un cameriere consegnò la colazione a Sven-Góran Eriksson (quando era alla Lazio) e trovò il futuro allenatore dell'Inghilterra a letto, con una tavola coperta da omini del Subbuteo sulle gambe. Per molta gente il migliore aneddoto sugli intrecci tra calcio professionistico e Subbuteo riguarda però il Povero Bill Shankly, leggendario allenatore del Liverpool. Questa storia la racconta spesso uno dei suoi giocatori, lo scozzese Ian St. John, quando ricorda le partite contro il Manchester United. A quanto pare il metodo di Shankly per ridurre l'avversario a proporzioni abbordabili era prendere un campo da Subbuteo come fosse l'Old Trafford, con tutti i giocatori rappresentati da figure del gioco. Partiva dalla figura di Alex Stepney e affermava: “Questo non sa giocare”, e se la metteva in tasca. Passata in rassegna allo stesso modo I'intera squadra, si fermava quando restavano tre soli giocatori: Denis Law, Bobby Charlton e George Best. E poi diceva alla propria squadra: “Se undici giocatori del Liverpool non sono in grado di batterne tre, allora non avete il diritto di indossare la maglia”.

Subbuteo-Storia illustrata della nostalgia, di Daniel Tatarsky. Isbn Edizioni. Pagine 110, € 15,00.

Monday, January 28, 2008

I MEDICI, L'EUTANASIA E LA MORTE DI WOJTYLA (da "Repubblica", Sept 18 - 2007)

Caro Direttore, per ironia della sorte, o per Disegno della Provvidenza, il numero di Micro-Mega che contiene la dettagliata ricostruzione della eutanasia di Karol Wojtyla è uscito lo stesso giorno (venerdì scorso) in cui la Santa Sede ribadiva solennemente che la mancata somministrazione di nutrimento, se necessario per via artificiale -non solo al malato grave, ma perfino ad un corpo umano in stato vegetativo e con encefalogramma piatto - costituiva comportamento eutanasico. Ovvio, perciò, che nei giorni immediatamente successivi, il medico curante di Giovanni Paolo II si sia affrettato a negare le "voci" sulla "buona morte" del pontefice (proprio in una intervista a Orazio La Rocca, pubblicata con grande evidenza da questo giornale).

Il professor Buzzonetti ha preferito non citare il lungo e dettagliato saggio pubblicato da MicroMega, a firma della professoressa Pavanelli, anestesista (già direttore della scuola di specializzazione in Anestesia e rianimazione dell'università di Ferrara), perché, parlando genericamente di "voci", hapotuto cosi evitare di dover entrare nel merito della ricostruzione stessa. Ma è proprio la smentita di Buzzonetti che non smentisce nulla. Non smentisce e non può smentire, infatti, una ricostruzione che la professoressa Pavanelli ha condotto utilizzando esclusivamente documenti ufficiali della Santa Sede e dell'entourage del Papa, e in particolare il libro dello stesso Renato Buzzo-netti ("Lasciatemi andare - la forza nella debolezza di Giovanni Paolo II", edizioni San Paolo, 2006) che riprende, sistematizza e approfondisce i bollettini medici quotidianamente emessi a suo tempo.

Del resto, il professor Buzzonetti si concentra sugli "ultimi istanti" di Karol Wojtyla, benché la professoressa Pavanelli non di auesti "ultimi istanti" si sia occupata, sui quali non avanza alcun rilievo, bensì dei due mesi precedenti la morte del Papa. Lina Pavanelli, infatti, mette aconfronto i dati clinici su questi due mesi forniti da Buzzonetti (e i comunicati del portavoce della Santa Sede Navarro-Valls), con i documenti di etica medica dell'ortodossia cattolica, dall'enciclica "Evangelium vitae" che ha caratterizzato il pontificato di Karol Wojtyla, ai Quaderni di Scienza e Vita, e infine al testo del Comitato nazionale per la bioetica del 30 settembre 2005, in cui la maggioranza cattolica, con il voto contrario di tutti i laici, tentava di imporre le norme dell'"Evangelium vitae" alla legislazione italiana.







Tutti questi testi dicono chiaramente che: 1) l'alimentazione e l'idratazione dei pazienti, anche se in stato vege-tativopersistente, deve essere somministrata comunque; 2) non vi è distinzione tra un atto che affretta la morte e una omissione che provoca la stessa conseguenza: in entrambi i casi si tratta di eutanasia.

La dottrina ufficiale della 'Chiesa (che a molti tra noi laici appare semplicemente mostruosa, perché non rispetta la volontà del malato terminale, nel caso non voglia più soffrire la tortura cui è ormai ridotta la sua vita) è perciò assolutamente chiara: non nutrire artificialmente un paziente, se tale mancata nutrizione affrettala suamor-te, significa partecipare ad un atto eutanasico.

Ora, il dettagliatissimo saggio di Lina Pavanelli dimostra esattamente questo: nelle settimane che precedono la sua morte, Karol Wojtyla diventa progressivamente incapace di alimentarsi, tanto è vero che dimagrisce a vista d'occhio (15 chili secondo l'agenzia AdnKronos, 19 chili secondo la Repubblica, nel giro di due settimane!), ma il sondino nasogastrico per l'alimentazione artificiale gli viene applicato solo "l'ultimo giorno prima del crollo finale".

Giovanni Paolo II, insomma, non è morto ne per una crisi respiratoria ne per il Parkinson, ma a causa di una mancata nutrizione che, se somministrata come da morale cattolica, lo avrebbe fatto vivere più a lungo. Quanto più a lungo non sappiamo, ovviamente. Ma certamente "ancora a lungo".

Non posso qui riprodurre le minuziose argomentazioni cliniche della professoressa Pavanelli, esposte però con una chiarezza didattica tale che anche il non medico riesce a seguirle perfettamente. Il saggio si domanda anche come mai dei medici cattolici abbiano compiuto una scelta incompatibile con il magistero della Chiesa. E anche qui, con una indagine minuziosa e logicamente ineccepibile, la Pavanelli arriva alla conclusione che il rifiuto della nutrizione artificiale non può essere venuto che dalla volontà dello stesso Papa. Se i medici non lo avessero avvertito della situazione e delle conseguenze, o avessero agito senza il suo consenso, infatti, avrebbe compiuto un reato perseguibile penalmente (non un suicidio assistito, ma un omicidio di non-consenziente: un omicidio tout court, insomma). Il che è impensabile.

Che nessuna smentita sia in realtà venuta dalla "smentita" del professore Buzzonetti, è confermato del resto da un episodio tanto sconcertante quanto significativo. Il giorno prima che Buzzonetti concedesse l'intervista a la Repubblica, sulla prima pagina del Corriere della Sera usciva un articolo di Luigi Accattoli, vaticanista notissimo, nel quale si riconosceva la contraddizione insanabile tra dottrina cattolica e mancata nutrizione artificiale del Papa, ma si rispondeva che in realtà tale nutrizione c'era stata, anche se i comunicati ufficiali l'avevano taciuta.

Accattoli accredita tale sua ricostruzione parlando di una personale "inchiesta tra le persone che accostarono il Papa lungo l'ultimo mese". Ora, sarebbe interessante sapere chi sono queste "persone", visto che il capo dello staff medico (cioè delle uni-che persone che potevano inserire il sondino nasogastrico) nella sua intervista del giorno dopo a Repubblica, non fa parola della " scoperta" di Accattoli.

Viene perciò il sacrosanto dubbio che imprecisati, ma evidentemente più che ufficiali, ambienti vaticani, nella veste di ancor più imprecisate "persone", vogliano accreditare in forma ufficiosa una nuova versione ad hoc delle ultime settimane del Papa, visto che quella ufficiale fin qui reiterata non potrebbe sot-trarsi alla circostanziata accusa di eutanasia (secondo la definizione di eutanasia della Chiesa cattolica, sia chiaro).

Ecco perché, la prossima settimana MicroMega organizzerà una conferenza stampa, in cui la professoressa Pavanelli risponderà a tutte le obiezioni con ogni dettaglio possibile. Inutile dire che a tale conferenza stampa, e per un pubblico confronto, MicroMega invita fin da ora il professor Buzzonetti, l'ex portavoce della Santa Sede Navarro-Valls (che oltre tutto è medico) e il suo successore padre Lombardi, Luigi Accattoli, e tutte le "persone" che hanno assistito Karol Wojtyla nelle ultime settimane di vita.

LA DOLCE MORTE DI PAPA WOJTYLA. UNA RISPOSTA (da "MicroMega", Sept 17 - 2007)

«La dolce morte di papa Wojtyla», il mio articolo comparso sull’ultimo numero di MicroMega, ha già provocato numerose reazioni. Sulla stampa nazionale sono comparse, fino ad ora, due pubblicazioni di rilievo: l’articolo di Luigi Accattoli sul Corriere della Sera del 15 settembre, dal titolo «Quel sondino che nutriva Wojtyla (ma l’annuncio arrivò molto dopo)», e l’intervista di Orazio La Rocca al medico personale di Karol Wojtyla, il prof. Renato Buzzonetti, «Così mori papa Wojtyla», comparsa su la Repubblica il 16 settembre.

Sento la necessità dare una breve risposta ad entrambe.

Il primo pezzo è un’inchiesta "tra le persone che accostarono il Papa nell’ ultimo mese". Propone una ricostruzione "giornalistica" della "vicenda del sondino" in cui si afferma che - anche se non è stato comunicato ufficialmente - il papa è stato nutrito saltuariamente per via enterale. In base a tale ricostruzione, il sondino naso-gastrico sarebbe stato inserito e tolto più volte. L’informazione, così come viene presentata, è imbarazzante da commentare da un punto di vista medico: ci troviamo di fronte ad una situazione in cui il paziente già defedato, che non è e non sarà mai più in grado di alimentarsi autonomamente, viene sottoposto ad un trattamento che comporta procedure ripetute che, per la patologia che lo affligge, sicuramente lo tormentano e che, a causa delle interruzioni, è di un’efficacia molto ridotta.

Se anche le informazioni fornite ad Accattoli fossero vere, il dato fondamentale rimane inalterato: per qualche motivo, nel periodo che va dal 2 febbraio al 30 marzo il Santo Padre non è stato nutrito a sufficienza, e per questo è andato incontro ad un grave deficit nutrizionale. Lo affermano le fonti d’agenzia di allora, mai smentite. Lo conferma il prof. Buzzonetti nel suo libro. L’archiatra pontificio ripete oltretutto proprio ieri (su la Repubblica) che il papa "da quel giorno (30 marzo) fu sottoposto a nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino naso-gastrico perché non era più nelle condizioni di nutrirsi per via orale." La frase non è ambigua: mi sembra voglia dire chiaramente che l’alimentazione enterale è stata iniziata proprio quel giorno. Se così non fosse, è sufficiente che lo spieghi. Per quel che mi riguarda, non posso che rimanere sconcertata di fronte alla discordanza fra la fonte ufficiale e quelle ufficiose.

S’è poi un passaggio, nell’ articolo di Accattoli, su cui desidero fare una precisazione. È il punto dove dice: "La Pavanelli viene a esprimere comprensione per il comportamento dei medici, che - constatando la gravità della situazione del papa ormai senza prospettive di guarigione - l’avrebbero lasciato deperire giorno dopo giorno". Vorrei specificare che la mia comprensione non è nei confronti di persone che hanno "lasciato che il paziente deperisse", ma è dovuta al fatto che intuisco i motivi per cui non hanno potuto impedire che ciò accadesse.





Nell’articolo-intervista di Orazio La Rocca al prof. Buzzonetti non ci sono riferimenti diretti al mio lavoro. L’archiatra pontificio afferma di aver deciso di parlare, a distanza di due anni, "per controbattere quelle voci che si sono recentemente levate per avanzare dubbi e sospetti intorno agli ultimi istanti di vita di Karol Wojtyla".

Non so a chi si riferisca dicendo "quelle voci". Ho seri dubbi che si tratti del mio articolo e, a dir la verità, dubito anche che fosse a conoscenza del contenuto. Chi l’ha letto infatti sa che non ho mai messo in dubbio l’adeguatezza e la tempestività delle cure somministrate negli ultimi giorni di vita del Santo Padre. Al contrario, sono convinta che in quel frangente sia stato fatto per il paziente tutto il possibile, e che probabilmente nessuno avrebbe potuto fare di meglio.

Il mio saggio non si occupa delle ultime ore di vita di Karol Wojtyla, e nemmeno del suo atteggiamento nell’imminenza della morte o del comportamento dei medici. Il testo ricostruisce sì il decorso clinico del paziente - e riporta perciò anche alcune notizie relative gli ultimi giorni della sua vita - però si occupa essenzialmente dei due mesi precedenti l’evento acuto finale.

Nell’intervista a la Repubblica il prof. Buzzonetti parla invece solo degli ultimi giorni e delle ultime ore. Discute del significato che può aver avuto la frase "lasciatemi andare" e della qualità della sua comunicazione personale con il paziente. Precisa che non si è trattato di "una richiesta indiretta di eutanasia rivolta ai medici". La Rocca fa poi domande sempre concentrate sulle ultime ore o sul senso di questa frase di Wojtyla, sulla possibilità che essa contraddica o no la sua dottrina. Ipotizza una possibile "interruzione di cure" allo stadio finale, quando il paziente non fu portato in ospedale.

Tutto ciò può interessare. Questi argomenti sono però totalmente estranei a ciò di cui ho scritto nel mio articolo, come pure alle questioni che esso solleva. Il mio interesse è focalizzato sul periodo che precede il 30 marzo. L’analisi delle informazioni di cui dispongo mi ha portato a concludere che, per qualche ragione non spiegata da motivi clinici, nei due mesi antecedenti la morte, il paziente non ha ricevuto una quantità di nutrimento sufficiente e non ha usufruito in tempo utile di quei presidi terapeutici che sono normali per molti malati con patologie simili. In seguito a queste mancanze, il suo organismo è andato incontro ad un grave decadimento globale con conseguente marcato dimagramento e - soprattutto - ad una depressione del sistema immunitario. La somma di questi fattori ha determinato la gravità dell’infezione che ha portato il paziente a morte.

In attesa di prove che dimostrino il contrario, rimango di questa opinione. Come medico, ritengo questa la versione più attendibile.

IL MEDICO DEL PAPA ROMPE IL SILENZIO (da "Repubblica", Sept 16 - 2007)



"A Wojtyla non fu staccata la spina"
Il professore che lo curava parla per la prima volta dopo la morte di Papa Wojtyla:
"Le cure non furono mai interrotte"
Buzzonetti, il suo medico: "nessuna eutanasia, assistito sino alla fine"
"La frase: ‘lasciatemi andare al Signore’ era solo una forma di preghiera ascetica"






CITTÀ DEL VATICANO - "Papa Giovanni Paolo II è stato assistito fino all'ultimo istante della sua vita, quando alle 21,37 del 2 aprile 2005 spirò. È vero che prima aveva detto ai medici 'Lasciatemi andare dal Signore'. Ma quella fu una frase ascetica, una altissima forma di preghiera finale di un uomo che stava soffrendo tanto e che sentiva il forte desiderio di voler avvicinarsi al Padre Celeste. Non fu, certamente, una manifestazione di rinunzia o una forma di resa anticipata alla vita. E tantomeno un invito rivolto ai medici curanti a staccare la spina o a interrompere l'assistenza, quasi una indiretta scelta di eutanasia come qualcuno vorrebbe adombrare. Chi pensa questo, sbaglia".

Dopo circa 2 anni e mezzo dalla morte di papa Wojtyla, rompe il silenzio il professor Renato Buzzonetti (archiatra pontificio), medico personale di Giovanni Paolo II fin dal 1978 ed ora responsabile della salute di Benedetto XVI. Lo fa per controbattere - puntualizza - quelle voci che si sono recentemente levate per avanzare dubbi e sospetti intorno agli ultimi istanti di vita di Karol Wojtyla.

Professor Buzzonetti, papa Ratzinger giovedì scorso, attraverso un nuovo intervento della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha ribadito che un ammalato in coma vegetativo permanente deve essere sempre alimentato con cibo ed acqua, anche con l'aiuto di una macchina. Giovanni Paolo II disse, invece, di volersene andare e fu accontentato. Non è un controsenso?
"Assolutamente no. Quella frase, 'Lasciatemi andare dal Padre', fu un atto di preghiera altissima, di profondo ascetismo, un esempio originale e quasi unico di attaccamento alla fede di Dio Padre e, nello stesso, tempo, alla vita, che Giovanni Paolo II ha amato profondamente fino all'ultimo istante".

Eppure dopo quella frase pronunziata verso le 15,30 del 2 aprile 2005, le cure furono interrotte e dopo qualche ora il Papa morì. Perché la volontà di Giovanni Paolo II fu rispettata e per altri pazienti nelle stesse condizioni non si potrebbe fare altrettanto?
"Non è vero che le cure al Santo Padre furono interrotte. La sua è stata una lunga Passione. Quando il 30 marzo si affacciò per l'ultima volta alla sua finestra non riuscì nemmeno a parlare. Ma non si arrese. Da quel giorno fu sottoposto a nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino naso-gastrico, perché non era più nelle condizioni di nutrirsi per via orale. La fleboclisi gli è stata applicata e assicurata fino alla fine, senza nessuna interruzione. Quando giovedì 31 marzo accusò un gravissimo shock settico con collasso cardiocircolatorio a causa di una infezione delle vie urinaria, fu sottoposto a tutti gli appropriati provvedimenti terapeutici e di assistenza cardiorespiraroria".

Perché non fu riportato in ospedale?
"Glielo chiese espressamente il segretario, monsignor Stanislao Dziwisz. Ma il Santo Padre volle restare in Vaticano dove poteva comunque contare sempre su una ininterrotta e qualificata assistenza medico-specialistica, 24 ore su 24, con personale altamente specializzato".

E poi, nel pomeriggio del 2 aprile, pronunziò quella frase ...
"Sì, lo confidò con un filo di voce in polacco a suor Tobiana mentre lo stava accudendo vicino al letto. Quando la suora uscì dalla stanza ci disse che il Papa le aveva detto di "voler essere lasciato andare dal Signore". Ripeto, fu un invito mistico, una altissima preghiera recitata da un uomo che sentiva che ormai stava per completare la sua avventura terrena. Ma non fu mai lasciato solo, senza presidi e senza assistenza, come qualcuno erroneamente vorrebbe insinuare. Fu per tutti noi che gli stavamo vicini una ennesima grande lezione di vita. Una preghiera recitata fino alla fine, con un debolissimo filo di voce, impercettibile, sussurrata, ma profonda. La preghiera di un santo che ha amato la vita fino a quando il buon Dio lo ha chiamato a sé".

QUEL SONDINO CHE NUTRIVA WOJTYLA (da "Corriere della Sera", Sept 15 - 2007)

CITTÀ DEL VATICANO - Ricordate papa Wojtyla con il crocifisso nelle mani, ripreso di spalle il Venerdì Santo del 2005, otto giorni prima della morte? Aveva il sondino nasogastrico e per non mostrarlo con un segno così invasivo i responsabili della «famiglia pontificia» decisero che la telecamera lo riprendesse solo da dietro o di lato. L’inserimento del sondino per l’alimentazione sarà annunciato il mercoledì seguente, 30 marzo. Ma in verità il Papa lo portava stabilmente dal lunedì della «settimana santa» e a più riprese gli era stato inserito durante gli ultimi giorni del secondo ricovero al Gemelli, che andò dal 24 febbraio al 13 marzo. Il vero «trattamento medico» delle ultime settimane di Giovanni Paolo II torna d’attualità a seguito della pubblicazione sul numero di MicroMega che giunge ora in edicola di un saggio del medico anestesista Lina Pavanelli che si chiede come mai i medici che avevano in cura il Papa gli abbiano applicato il sondino nutrizionale solo l’ultimo giorno prima del crollo finale: «Un atto troppo tardivo per essere di utilità al paziente».


La studiosa evidenzia poi una «contraddizione» tra «l’esperienza umana di Karol Wojtyla - in qualità di paziente - e le dottrine del bene oggettivo da lui pubblicate, che sono la questione capitale delle crociate politiche degli organi istituzionali della Chiesa». Insomma la Pavanelli viene a esprimere «comprensione» per il comportamento dei medici, che - constatando la gravità della situazione del Papa ormai senza prospettive di guarigione - l’avrebbero lasciato «deperire giorno dopo giorno», evitandogli il calvario di trattamenti invasivi - tipo l’alimentazione artificiale - che la dottrina cattolica ritiene invece imprescindibili e doverosi (vedi in questa pagina altro servizio su un pronunciamento venuto ieri in merito ai malati in «stato vegetativo permanente»). Ebbene senza entrare nella questione medica, né in quella etica, riteniamo che sia possibile una ricostruzione giornalistica dei fatti dai quali - come anticipato sopra - venga a risultare che il sondino era stato applicato molto prima di quando dichiarato. Abbiamo ricostruito la vicenda del sondino con un’inchiesta tra le persone che accostarono il papa lungo l’ultimo mese, Quella sui tempi del sondino è l’unica discordanza di rilievo che l’indagine ha messo in evidenza rispetto alla narrazione delle ultime settimane pubblicata dagli Acta Apostolicae Sedis il 19 settembre 2005. «Il 30 marzo - scrivono gli Acta - veniva comunicato che era stata intrapresa la nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino nasogastrico».





Era stata «intrapresa» infatti, ma non quel giorno! Alla riga successiva la narrazione ufficiale della morte del Papa così riprende: «Lo stesso giorno, mercoledì, il Santo Padre si presentava alla finestra del suo studio e, senza parlare, benediceva la folla. Fu l’ultima statio pubblica della sua penosa via crucis». Si affacciò - quell’ultima volta - senza sondino, come senza sondino si era già affacciato altre due volte da quando gli era stato inserito con l’intenzione che fosse «permanente». Quando veniva l’ora della finestra gli toglievano il sondino e glielo rimettevano poco dopo. Essendo praticamente annullata la capacità di ingestione di cibi, l’uso del sondino era inevitabile. Ma toglierlo e rimetterlo ogni tre giorni era un tormento che il Papa sopportava male e il medico Renato Buzzonetti ogni volta diceva: «Basta, il Papa non si affaccia più», scontrandosi però con Stanislaw Dziwisz (ora cardinale) che voleva farlo contento: «Il Papa non può essere invisibile». Si arriva al Venerdì Santo, 25 marzo. Partecipa alla Via Crucis dall’appartamento privato. Legge un suo messaggio il cardinale Camillo Ruini: «Offro le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti». Più forte del verbo è l’immagine curva e silenziosa del papa che appare sui maxischermi, ripreso di spalle nella sua cappella, seduto davanti all’inginocchiatoio, che segue la Via Crucis attraverso la diretta di Rai 1, guardando verso un grande schermo piatto, collocato davanti l’altare. Molti si chiesero perché quella sera non fosse stato mostrato il volto del Papa. La verità è che non ebbero il coraggio di levargli e rimettergli il sondino. Era a letto, lo vestirono, lo portarono in cappella, dove ebbe la forza di restare inginocchiato e seduto per un’ora e mezza e stabilirono di riprenderlo di spalle mentre teneva quel crocifisso al quale ormai così tanto assomigliava.

LA DOLCE MORTE DI PAPA WOJTYLA (da "Micromega", Sept 19 - 2007)

di Lina Pavanelli

«La dolce morte di Papa Wojtyla», il mio articolo comparso sull’ultimo numero di MicroMega, ha già provocato numerose reazioni. Sulla stampa nazionale sono comparse, fino ad ora, due pubblicazioni di rilievo: l’articolo di Luigi Accattoli sul Corriere della Sera del 15 settembre, dal titolo «Quel sondino che nutriva Wojtyla (ma l’annuncio arrivò molto dopo)», e l’intervista di Orazio La Rocca al medico personale di Karol Wojtyla, il Prof. Renato Buzzonetti, «Così mori Papa Wojtyla», comparsa su La Repubblica il 16 settembre.

Sento la necessità dare una breve risposta ad entrambe.

Il primo pezzo è un’inchiesta “tra le persone che accostarono il Papa nell’ ultimo mese”. Propone una ricostruzione “giornalistica” della “vicenda del sondino” in cui si afferma che - anche se non è stato comunicato ufficialmente - il Papa è stato nutrito saltuariamente per via enterale. In base a tale ricostruzione, il sondino naso-gastrico sarebbe stato inserito e tolto più volte. L’informazione, così come viene presentata, è imbarazzante da commentare da un punto di vista medico: ci troviamo di fronte ad una situazione in cui il paziente già defedato, che non è e non sarà mai più in grado di alimentarsi autonomamente, viene sottoposto ad un trattamento che comporta procedure ripetute che, per la patologia che lo affligge, sicuramente lo tormentano e che, a causa delle interruzioni, è di un’efficacia molto ridotta.
Se anche le informazioni fornite ad Accattoli fossero vere, il dato fondamentale rimane inalterato: per qualche motivo, nel periodo che va dal 2 febbraio al 30 marzo il Santo Padre non è stato nutrito a sufficienza, e per questo è andato incontro ad un grave deficit nutrizionale. Lo affermano le fonti d’agenzia di allora, mai smentite. Lo conferma il prof. Buzzonetti nel suo libro. L’archiatra pontificio ripete oltretutto proprio ieri (su Repubblica) che il papa “da quel giorno (30 marzo) fu sottoposto a nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino naso-gastrico perché non era più nelle condizioni di nutrirsi per via orale.” La frase non è ambigua: mi sembra voglia dire chiaramente che l’alimentazione enterale è stata iniziata proprio quel giorno. Se così non fosse, è sufficiente che lo spieghi. Per quel che mi riguarda, non posso che rimanere sconcertata di fronte alla discordanza fra la fonte ufficiale e quelle ufficiose.
C’è poi un passaggio, nell’ articolo di Accattoli, su cui desidero fare una precisazione. E’ il punto dove dice: “La Pavanelli viene a esprimere comprensione per il comportamento dei medici, che – constatando la gravità della situazione del papa ormai senza prospettive di guarigione - l’avrebbero lasciato deperire giorno dopo giorno”. Vorrei specificare che la mia comprensione non è nei confronti di persone che hanno “lasciato che il paziente deperisse”, ma è dovuta al fatto che intuisco i motivi per cui non hanno potuto impedire che ciò accadesse.

Nell’articolo-intervista di Orazio La Rocca al prof. Buzzonetti non ci sono riferimenti diretti al mio lavoro. L’archiatra pontificio afferma di aver deciso di parlare, a distanza di due anni, “per controbattere quelle voci che si sono recentemente levate per avanzare dubbi e sospetti intorno agli ultimi istanti di vita di Karol Wojtyla”.
Non so a chi si riferisca dicendo “quelle voci”. Ho seri dubbi che si tratti del mio articolo e, a dir la verità, dubito anche che fosse a conoscenza del contenuto. Chi l’ha letto infatti sa che non ho mai messo in dubbio l’adeguatezza e la tempestività delle cure somministrate negli ultimi giorni di vita del Santo Padre. Al contrario, sono convinta che in quel frangente sia stato fatto per il paziente tutto il possibile, e che probabilmente nessuno avrebbe potuto fare di meglio.
Il mio saggio non si occupa delle ultime ore di vita di Karol Wojtyla, e nemmeno del suo atteggiamento nell’imminenza della morte o del comportamento dei medici. Il testo ricostruisce sì il decorso clinico del paziente - e riporta perciò anche alcune notizie relative gli ultimi giorni della sua vita - però si occupa essenzialmente dei due mesi precedenti l’evento acuto finale.
Nell’intervista a Repubblica il prof. Buzzonetti parla invece solo degli ultimi giorni e delle ultime ore. Discute del significato che può aver avuto la frase “lasciatemi andare” e della qualità della sua comunicazione personale con il paziente. Precisa che non si è trattato di “una richiesta indiretta di eutanasia rivolta ai medici”. La Rocca fa poi domande sempre concentrate sulle ultime ore o sul senso di questa frase di Wojtyla, sulla possibilità che essa contraddica o no la sua dottrina. Ipotizza una possibile “interruzione di cure” allo stadio finale, quando il paziente non fu portato in ospedale.
Tutto ciò può interessare. Questi argomenti sono però totalmente estranei a ciò di cui ho scritto nel mio articolo, come pure alle questioni che esso solleva. Il mio interesse è focalizzato sul periodo che precede il 30 marzo. L’analisi delle informazioni di cui dispongo mi ha portato a concludere che, per qualche ragione non spiegata da motivi clinici, nei due mesi antecedenti la morte, il paziente non ha ricevuto una quantità di nutrimento sufficiente e non ha usufruito in tempo utile di quei presidi terapeutici che sono normali per molti malati con patologie simili. In seguito a queste mancanze, il suo organismo è andato incontro ad un grave decadimento globale con conseguente marcato dimagramento e – soprattutto – ad una depressione del sistema immunitario. La somma di questi fattori ha determinato la gravità dell’infezione che ha portato il paziente a morte.

In attesa di prove che dimostrino il contrario, rimango di questa opinione. Come medico, ritengo questa la versione più attendibile.

QUEI LUNGHI SILENZI SULL'AGONIA DI WOJTYLA (da "Micromega", Sept 14 - 2007)


Era prevedibile che il saggio dal titolo "La dolce morte di Karol Wojtyla", pubblicato dalla dott.ssa Lina Pavanelli a pagina 128 del numero 5/2007 della rivista MicroMega. Almanacco di filosofia, diretto da Paolo Flores D’Arcais, anticipato lo stesso giorno da la Repubblica, avrebbe suscitato un grande dibattito. E ancora di più, perché per coincidenza (ma "il caso non esiste"), il numero di MicroMega, che contiene la dettagliata ricostruzione delle condizioni di salute nelle ultime settimane di vita di papa Giovanni Paolo II, in edicola lo stesso giorno (venerdì 14 settembre, festa liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce) in cui la Santa Sede ribadiva solennemente che la mancata somministrazione di nutrimento, se necessario per via artificiale - non solo al malato grave, ma perfino ad un corpo umano in stato vegetativo e con encefalogramma piatto - costituiva comportamento eutanasico.«La dolce morte di papa Wojtyla», il mio articolo comparso sull’ultimo numero di MicroMega, ha già provocato numerose reazioni. Sulla stampa nazionale sono comparse, fino ad ora, due pubblicazioni di rilievo: l’articolo di Luigi Accattoli sul Corriere della Sera del 15 settembre, dal titolo «Quel sondino che nutriva Wojtyla (ma l’annuncio arrivò molto dopo)», e l’intervista di Orazio La Rocca al medico personale di Karol Wojtyla, il prof. Renato Buzzonetti, «Così mori papa Wojtyla», comparsa su la Repubblica il 16 settembre.

Lina Pavanelli - ferrarese, medico anestesista e responsabile provinciale sanità dei Verdi di Ferrara, già professore associato di anestesia dell'Arcispedale Sant'Anna di Ferrara e direttore della Scuola di specializzazione per infermieri - compie un’attenta analisi delle condizioni di salute del servo di Dio Papa Giovanni Paolo nelle ultime settimane della sua esistenza, in cui dimostra che non gli sono state praticate alcune cure, quelle stesse cure che si volevano continuare ad applicare nel caso di Piergiorgio Welby, che avrebbero potuto tenerlo in vita ancora a lungo, che però il vecchio papa ha rifiutate perché le considerava troppo gravose. Conclude chiedendo quale differenza intercorra sul piano morale, tra il rifiutare un sondino per essere alimentati e il rifiutare una macchina per respirare, mettendo "la dolce morte di Wojtyla" in correlazione con quella "negata" a Piergiorgio Welby. Riferendosi alla differenza tra la morte di papa Giovanni Paolo II e quella di Welby, scrive: "Noi profani non siamo in grado di coglierla (la differenza), ma ci deve essere e deve essere grande, se per Karol Wojtyla è stato iniziato un processo di canonizzazione, mentre a Piergiorgio Welby è stato negato il funerale cattolico". Secondo la dott.ssa Pavanelli infatti entrambi sarebbero morti a causa del rifiuto del supporto artificiale alle funzioni vitali. Precede il suo articolo su MicroMega una citazione dal vangelo di Matteo: "Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?" (Mt 7,3).








Non è passato neanche un anno dalla morte di Piergiorgio Welby, ma sembra molto lontana. Aspra è stata la polemica fra laici e rappresentanti autorevoli del potere cattolico sui diritti del malato, eutanasia e accanimento terapeutico.

Il Santo Padre fu ricoverato d’urgenza al policlinico Gemelli l’1 febbraio 2005 per una «laringo-tracheite acuta con laringospasmo» che aveva provocato una drammatica crisi respiratoria. Rimase sotto controllo dieci giorni e poi fu dimesso. Due settimane più tardi il quadro clinico si ripresentò con maggiore gravità, per cui il paziente fu nuovamente ricoverato d’urgenza. Il giorno seguente il ricovero gli fu praticata una tracheostomia e gli fu inserita una cannula respiratoria.

Ci venne spiegato che la causa di queste crisi era una «stenosi funzionale della laringe». La degenza questa volta fu di circa venti giorni, e il paziente venne dimesso il 13 marzo. Nei giorni seguenti il Santo Padre fece due brevi apparizioni alla finestra del suo appartamento senza essere in grado di parlare. I125 marzo fu ripreso di schiena mentre seguiva dal suo studio la via crucis. Si affacciò per l’ultima volta alla finestra dell’appartamento pontificio il 30 marzo. Il giorno seguente avvenne il tracollo, apparentemente a causa di una cistite acuta, che provocò uno shock settico. Morì due giorni dopo.

La stenosi funzionale laringea che affliggeva il papa era una condizione non reversibile, perciò, se il problema delle vie respiratorie non fosse stato risolto, il paziente sarebbe andato incontro a crisi asfittiche sempre più frequenti e pericolose. La situazione del paziente era tal- mente rischiosa che il dottor Buzzonetti aveva, preventivamente, ritenuto indispensabile organizzare sotto la sua personale direzione una struttura complessa, in grado di poter assicurare il controllo permanente del suo assistito. Nel suo libro spiega di aver attivato «un’equipe vaticana multidisciplinare, composta da dieci medici rianimatori, da specialisti di cardiologia, di otorinolaringoiatria, di medicina interna, di radiologia e di patologia clinica, coadiuvati da quattro infermieri professionali».

Grazie alla pronta assistenza assicurata da questa organizzazione, il Santo Padre non morì durante la crisi che lo condusse al secondo ricovero. Il pericolo corso però era stato tale che, in questa seconda occasione, fu eseguito subito l’unico atto terapeutico risolutivo della situazione patologica: il confezionamento di una via respiratoria alternativa (tracheostomia) che, vista la patologia soggiacente, non poteva che essere definitiva.

Dal primo ricovero fino all’ultima crisi, tutte le comunicazioni trasmesse dal portavoce del Vaticano erano focalizzate sull’aspetto respiratorio e fonatorio.

L’immagine che però mi restava in mente era anche una crudele, fredda, esposizione di dati evidenti. Il paziente era morto per ragioni che chiaramente non erano state menzionate.

Il papa stava morendo per un’altra conseguenza del coinvolgimento dei muscoli faringo-laringei provocata dal morbo di Parkinson, una conseguenza più lenta a manifestarsi ma che, se non trattata, è ugualmente pericolosa: l’incapacità di deglutire.

Non potendo deglutire, il paziente non era in grado di alimentarsi. Sul pontefice, nell’ultimo mese di vitale conseguenze di questa menomazione erano clamorosamente visibili.

Non avrebbe potuto essere altrimenti: l’apporto nutrizionale era irrisorio, e probabilmente anche l’assunzione dei liquidi era insufficiente. La sua struttura muscolare debilitata dalla denutrizione, oltre che dal morbo di Parkinson, era ormai talmente debole da rendergli faticosa la respirazione anche attraverso la cannula ma soprattutto - questa è la cosa più grave - il sistema immunitario, compromesso dalla denutrizione, era ormai così depresso da non assicurargli più alcuna difesa, per cui una banale infezione è potuta diventare mortale in poche ore.

Nel pomeriggio dello stesso giorno la gravità estrema della situazione convinse finalmente i clinici ad inserire quel sondino che avrebbe dovuto essere stato già collocato da settimane. Troppo tardi.

hiarisco subito che non ho critiche da muovere nei confronti dei medici del papa, anzi, li capisco. Hanno lasciato che il Santo Padre deperisse giorno per giorno, come testimoniano le immagini di quel periodo, nonostante si rendessero conto che in quelle condizioni non avrebbe potuto sopravvivere a lungo.

L’ultimo giorno prima del «crollo» finale il sondino nutrizionale venne applicato. E stato un atto troppo tardivo per essere di utilità al paziente, ma rivela il dramma e il conflitto vissuto dai medici.

È il caso di domandarsi il perché tanta avarizia di notizie, insieme al silenzio da parte di tutti gli organi d’informazione vaticani sulla patologia che portò il papa alla morte. Impossibile dare una risposta, ma è certo che, in questo caso, la «riservatezza» ha aiutato a coprire un’evidente contraddizione tra l’esperienza umana di Karol Wojtyla - in qualità di paziente - e le dottrine del «bene oggettivo», da lui pubblicate, che sono la questione capitale delle crociate politiche degli organi istituzionali della Chiesa.

Thursday, January 17, 2008

Sunday, January 6, 2008

UN BARBONE DI NOME SILVIO (da "L'Espresso", Dec 20 - 2007)

Dopo gli impeccabili completi blu e l'aria trasandata degli ultimi tempi, Berlusconi sta studiando nuove maniere di presentarsi al suo pubblico.

Per lunghi anni Silvio Berlusconi è apparso agli italiani in completo blu, cravatta di seta, sfondo azzurro, luci televisive, voce suadente: stile convention. Da qualche tempo compare all'improvviso nei mercati, trafelato, sbraitando, senza cravatta, con una giacca enorme, girocollo nero alla Rififì, emanando un forte odore di bucce di mandarino. Gli esperti di comunicazione sono sorpresi e ammirati. "Dice da anni sempre le stesse quattro cazzate", spiega Ron Hathaway, il guru delle campagne politiche americane, "tipo 'La magistratura mi perseguita', ma nessuno ci fa caso perché tutti sono concentrati sul suo modo di dirle.




È un genio assoluto della comunicazione, l'unico ad avere capito che è una scienza: come dire cazzate senza farsi beccare. Per farvi un esempio, se un politico appare nudo in televisione e inneggia al nazismo indicandosi i genitali, potete scommettere che il giorno dopo nessuno farà caso alla sua adesione al Terzo Reich, e tutti si chiederanno perché fosse nudo e soprattutto perché si indicasse i genitali. L'unico problema della strategia di Berlusconi", conclude Hathaway, "è che se abitua il pubblico a sorprese continue, sarà costretto a inventarsi sempre qualcosa di nuovo".

È dunque prevedibile che la fase 'piazze e mercati' esaurisca presto la sua spinta propulsiva, e che Berlusconi stia preparando (insieme al suo staff di comunicatori, presieduto da Hathaway) nuove maniere di presentarsi al suo pubblico. Vediamo le più probabili.

Vecchio frac Berlusconi si mostrerà in pubblico solo verso l'alba: una figura elegante, misteriosa, in frac e cilindro, che percorre la città e indugia quando attraversa i ponti, e si ferma a osservare amaramente il fiume dal parapetto. Soltanto i rari passanti che lo incroceranno, avvicinandosi, potranno udirlo mentre mormora tra sé e sé, scuotendo il capo, di essere perseguitato dalla magistratura.

Dannunziano In divisa da aviatore della prima guerra mondiale, baffetti alla Clark Gable, sorriso spavaldo, massimo sprezzo del pericolo, Berlusconi sorvolerà in biplano, ripetutamente, le principali città italiane, a bassissima quota, lanciando migliaia di volantini con la scritta "La magistratura mi perseguita".

Underground In blue-jeans col cavallo basso, anfibi, chiodo, Berlusconi traccia sui muri di Milano e Roma centinaia di enormi scritte: "La magistratura mi perseguita". Per evitare noie legali o fastidiose contestazioni, prima di tracciare ogni graffito acquista il relativo palazzo. Come fuori programma, un paio di incursioni nel metrò di piazza San Babila, rappando nei sottopassaggi "La magistratura mi perseguita" nel modo più informale, accompagnato dalla Filarmonica di Vienna affittata per l'occasione.

Pazzo Berlusconi, armato fino ai denti, fa irruzione in alcuni condomini popolari delle principali città italiane. Asserragliato in cortile, dopo avere crivellato di colpi i bidoni della spazzatura e i panni stesi, griderà alle massaie che non intende fare del male a nessuno, ma si trova costretto a comportarsi in quel modo perché è perseguitato dalla magistratura.

Porta a porta Berlusconi, vestito con eleganza, eleganza informale, suonerà al campanello di elettori scelti a caso. A chi gli apre, con un largo sorriso, dirà "Non vorrei disturbarla, signora. Le rubo solo cinque secondi. Volevo avvertirla che sono perseguitato dalla magistratura".

Clochard Berlusconi si addormenterà sulle panchine dei giardini, vestito da clochard, sotto una nevicata artificiale prodotta da decine di cannoni. Lo sveglierà un bambino, stupito di trovare un barbone sepolto dalla neve, soprattutto perché è giugno e a venti metri di distanza la gente prende il sole a torso nudo. Berlusconi si scrollerà la neve di dosso, si stropiccerà gli occhi e accarezzerà il bambino. Dicendogli dolcemente: "Lo sai perché mi trovo qui, bambino, rischiando l'assideramento, affamato, senza soldi? Perché sono perseguitato dalla magistratura".

Friday, January 4, 2008

HANA, PARADISO POST NEW AGE (da "repubblica.it", Jan 04 - 2008)




Sicuramente l'articolo che sto per proporvi, stimola e invoglia ad impegnarsi in maniera forse un po' piu' concreta affinche' si possa intervenire per un ambiente decisamente piu' verde.
Pero', una volta raggiunta la fine della lettura, c'e' una cosa che mi ha lasciato perplesso e che non voglio scrivere prima di aver riportato tutto il suo contenuto.

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Hana, sull'isola di Maui, è uno strano posto popolato da una comunità di expat alternativi. Che si dedicano all'agricoltura biologica, allo yoga e a godersi le buone vibrazioni della natura sacra delle Hawaii

Le onde dell'oceano si frangono con moto ipnotico mentre la venere yoga di Hana fa lezione con voce morbida. "Tenete la posizione finché il sole sorge sopra il cratere", dice inarcando le braccia a formare un cerchio ampio sopra la testa. Legge una poesia di Mary Oliver, canta un mantra e ci invita ad allungare i glutei in direzione di Hana. Chiudiamo gli occhi, solo in parte consapevoli del frusciare del vento tra le foglie dei banani. "È come avere un vaso di fiori in mezzo al cuore", afferma Erin Lindbergh, la yogini, a proposito della sensazione che nasce dal trascorrere una lenta mattina in un nirvana tropicale dove tutta la natura pare sotto l'effetto del Viagra. Quasi 40 anni fa suo nonno Charles A. Lindbergh si unì ai molti che rimasero incantati da Hana, sulla costa est dell'isola di Maui. Oggi è sepolto in una bara di eucalipto nella chiesa congregazionalista di Hoomau, a Kipahulu, non lontano dal centro di yoga della nipote. Come le masse di persone che a bordo di Mustang e PT Cruiser noleggiate affollano la Hana Highway per sfuggire dalla sterilità delle catene alberghiere e raggiungere l'"altra parte" di Maui, il leggendario nomade dei cieli era sempre alla ricerca della serenità, di un solenne senso di solitudine.

E così è sua nipote, che da poco si è trasferita alle Hawaii dal Montana. Per lei, questo angolo di paradiso, che 84 chilometri, 617 tornanti e 56 ponti a corsia unica dividono dalla città più vicina, ha del mana, "energia vitale". "C'è chi dice che Hana sia quasi terapeutica, come una tranquilla vibrazione che si percepisce", ha scritto Sunni Kaikala Hueu, originaria di Hana. Le vibrazioni qui possono essere decisamente profonde. In quale altro posto, a eccezione di Hana - con la sua mitica autostrada larga circa quanto un vialetto di provincia - è possibile imbattersi insieme in ingorghi di traffico e cascate segrete? E in quale altro posto eccentrici amanti della natura abitano case Post New Age costruite sugli alberi e fanno granite con delle pale azionate dai pedali delle biciclette, mentre dall'altra parte della strada, in una cucina comune, una minuta kapuna di circa 80 anni, in pantaloni rosa al ginocchio, pela taro bolliti con il metodo antico: usando una conchiglia opihi (tipo una nostra patella)? Venire da queste parti significa subire gli altissimi costi della Hana Highway (dove una libbra di caffè costa 28 dollari), ma optare per una delle isole più comunemente associate a centri commerciali, golf e piscine - con tanto di finti relitti di navi per i bambini - significherebbe perdere l'essenza di Hana: una fragile oasi nella cultura delle Hawaii.

Un esempio: poco lontano dall'Hotel Hana-Maui, un resort da 475 dollari a notte sul mare, un uomo chiamato Blondie (che tutto è tranne che biondo) siede in una capanna dal tetto di paglia, spiando l'oceano in cerca di increspature improvvise.

È un kilo ia: un esperto avvistatore di pesci. La capanna è la akule hale, un ritrovo di pescatori con pavimento di ghiaia e terra, dove un calendario è appeso al muro con una molletta da bucato. Tutti stanno aspettando l'arrivo dello sgombro, che segna l'inizio del hukilau: un'attività che prevede lo scambio di messaggi via cellulare, occhiali da sole Polaroid e l'impiego di barche a motore e a remi per spaventare i pesci e spingerli verso le reti. Quando gli akule arrivano è festa per tutta l'isola. Ma i pesci non sono che un pretesto per "scambiarsi storie", un'attività che è resa più memorabile dal consumo di numerose birre già prima di colazione. Altra storia emblematica: Burt Freeland, il locale impresario di pompe funebri, racconta di una telefonata che ha appena ricevuto dalla polizia: "Hanno chiesto alla zia il numero civico della sua abitazione, e lei ha risposto "non lo so". Non sapeva nemmeno di averne uno!".

Non conoscere il proprio indirizzo sembra un atteggiamento tipico ad Hana. E poi basta stare qui anche per poco tempo per adottare le credenze del luogo: "L'oceano è la nostra ghiacciaia", "La pianta di taro è un divino antenato", "Non voltate mai le spalle all'oceano, le correnti fredde possono uccidere, anche nelle giornate di sole". "Non è un posto per deboli di cuore", ribadisce più tardi Arabella Ark, un'eccentrica ceramista trasferitasi qui dalla California, e proprietaria del bed-and-breakfast dove ho preso alloggio. "O ti risucchia, o ti risputa fuori". Sono arrivata da Arabella di sera, schivando uccelli di myna, i piccioni della Hana Highway. La casa, un tempo dimora del dottore che curò Lindbergh, era circondata da gardenie tahitiane e da altre piante con piccole bacche che sembravano bijoux anni Quaranta: ho avuto l'impressione di entrare in un bouquet di fiori. Il giorno dopo mi ha dato un passaggio un'ereditiera, proprietaria di una cascata, che vive in una villa sull'oceano. Abbiamo sfrecciato insieme su una jeep fiammante e ci siamo fermate davanti alla sua serra di orchidee. Nel suo salotto, tra i mobili di Sam Maloof, si aggiravano delle improbabili galline (una ha anche deposto un uovo). Lei mi ha parlato con competenza della sanguinosa storia di questa regione, di secoli di battaglie tra i capi di Big Island (l'isola più grande delle Hawaii, che si chiama in realtà Hawaii, ndr) e di Maui per il controllo dei suoi tesori naturali.

"Hana è un vortice", dice prima di imbarcarsi su un aereo per New York dove l'aspetta l'inaugurazione di una mostra d'arte.

Comunque vivere in paradiso non sempre è facile. Nel portabagagli della sua auto Arabella Ark porta una radio a manovella, scarpe da ginnastica, una torcia e dei segnalatori luminosi per far fronte a ogni imprevisto durante le oltre due ore di guida sulla Hana Highway che un viaggio dal dentista o da "Costco" - un negozio all'ingrosso sull'"altro lato" - richiedono. Ogni anno spende mille dollari in insetticidi, per evitare che la sua deliziosa casa assomigli a un convegno di Templari Mistici con scorpioni e millepiedi. A volte, però, l'atmosfera tra ricchi expat e hawaiani (alcuni dei quali dividono capanne di 80 mq con una decina di parenti), può farsi molto tesa. Soprattutto nulla irrita i locali più della mancanza di rispetto per la terra. Su un'isola, la terra è un bene limitato. È ohana, è famiglia. È questo il motivo per cui Frank James Oliveira è in guerra con i turisti. È anche il motivo per cui il best seller Maui Revealed, the ultimate guidebook è stato ribattezzato dalla gente del posto "Maui oltraggiata". Questa guida rivela alcuni angoli idilliaci un tempo noti solo ai locali, alcuni dei quali si trovano in proprietà private. In particolare, a urtare Oliveira sono le pagine che vanno dalla 90 alla 92: un elogio della Blue Pool, la piscina azzurra, la maggior parte della quale sorge su un terreno della sua famiglia. "Ogni giorno arrivavano 400 auto e più, era una fila unica", lamenta Frank. La piscina, che ha fatto da sfondo al famoso servizio fotografico della pattinatrice/medaglia d'oro Katarina Witt per Playboy, è nascosta tra grandi rocce con all'orizzonte un oceano così blu da sembrare ritoccato con Photoshop. Non è solo l'abuso di un fragile ecosistema a irritare Frank, ma l'arroganza: "Ti dicono: ma veniamo dal Wisconsin! E io rispondo, hey, solo sette anni fa c'era Bill Clinton, e adesso c'è George W. Bush. Le cose cambiano...".



Per gli hawaiani, cascate e spiagge segrete non sono parchi acquatici, ma fanno parte di un antico sistema di suddivisione della terra chiamato ahupuaa, secondo il quale le risorse naturali sono curate e sfruttate in appezzamenti a spicchio che vanno dall'oceano alla foresta. Fino a tempi relativamente recenti la cultura hawaiana veniva "usata e sfruttata per la sua valenza di intrattenimento", per dirla con le parole di Douglas Kahikina Chang, direttore dell'Hotel Hana-Maui da poco diventato il primo indigeno presidente dell'Ente turistico hawaiano. "Era una parodia, con tanto di ragazze hula al chiaro di luna e danze tribali attorno a finti luaus, party". Ma, per fortuna, oggi è possible farsi un'idea più genuina delle Hawaii.

Soprattutto ad Hana. Un pomeriggio mi sono seduta a parlare con Kamaui Aiona, direttore del Kahanu Garden, che fa parte del Giardino botanico tropicale nazionale e sorge a nord dell'aeroporto della città. Il giardino, che è aperto al pubblico, è una meraviglia etnobotanica fatta di piante indigene e "piante da canoa", ovvero trasportate qui da altre isole da navigatori polinesiani. All'interno sorge il Piilanihale Heiau, la più grande rovina di un tempio antico nelle Hawaii, un muro di pietra lungo due volte e mezzo un campo da calcio. Il suo potere spirituale è testimoniato dal fatto che alcune delle sue pietre, trafugate dai visitatori, sono state rispedite indietro anonimamente. Il restauro delle secolari terrazze di taro della zona, poi, rappresenta un'iniziativa culturale emblematica. Secondo le leggende hawaiane, infatti, l'uomo nasce da questo vegetale. Durante una passeggiata guidata organizzata da Kipahulu Ohana, un gruppo noprofit che si dedica a riportare in vita le pratiche indigene hawaiane, compresa una fattoria biologica di taro, abbiamo osservato varie piante, imparando gli effetti lassativi delle noci kikui e le proprietà curative dei capelli dello zenzero awa puhi: "È così che la costosissima marca di prodotti Paul Mitchel ha fatto valanghe di soldi con gli shampoo", dice la guida. "Prima parlavamo poco della nostra cultura perché pensavamo che fosse il modo migliore per preservarla", chiarisce Sol Church, 30 anni, che addestra le guide. "Adesso invece sappiamo che per difenderla dobbiamo diffonderla". E appropriarsi delle tradizioni locali, per i neoresidenti stranieri sta diventando una tentazione forte. Stephan Reeve è un esempio. Ha consumato il suo ultimo pasto cucinato dieci anni fa a Mendocino e da allora questo guru dell'autosufficienza ha abbandonato la terraferma per dedicarsi alle Hawaii alla coltivazione di frutti tropicali, in particolare del durian, per la sua dieta crudista basata interamente su cibi che coltiva lui stesso.



Una cena ospiti da lui è costituita solo da frutti colti direttamente dagli alberi che Stephan coltiva sui suoi quattro ettari di proprietà. "Volevo lasciare gli Stati Uniti... e sono arrivato qui", dice con semplicità mentre raccogliamo e ci rimpinziamo di litchi incredibilmente gustosi. Reeve ha scelto Hana per la qualità dell'aria e l'assenza di fertilizzanti nel terreno. Il suo vicinato è formato da un ingegnere nucleare, un guru dell'elettronica, un riparatore di mulini a vento e Lowell Thomas Jr., ex vicegovernatore dell'Alaska che è anche un riconosciuto esperto di ovuli delle piante. Quando ha fame si allunga verso il frutto matkuching del Borneo e lo coglie camminando a piedi nudi sulla fresca, morbida copertura di arachidi che ha piantato per impedire la crescita di erbacce.

Cenare a base di frutta e noci coltivate da lui secondo Reeve è un'esperienza sensuale. Di fatto, uno sballo estetizzante che gli permette di esprimere il suo animo un po' narciso: "Quando si è qui, si tende a provare un senso di gratitudine, no?", nota con studiata nonchalance. Non rispondo, ma metto da parte il suo numero, in caso di Armageddon.

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A questo punto la mia impressione e':
- che questo e' un posto fatto e per soli ricconi;
- prima di spostarsi li, quale e' stata la loro "politica", quale e' stato il loro impatto sull'ambiente?

Se la risposta e' quella a cui sto pensando ora, vedo solo narcisismo ed egoismo.
E' facile, avendo soldi, appropiarsi di paradisi e non volerli condividere con nessuno per la paura che vengano intaccati.

Si dice nell'articolo che c'e' l'intenzione ad educare... quale miglior modo se non partendo dal punto di ospitare chi governa gli stati, proponendo un "soggiorno culturale"?

Gli argomenti che mi frullano nel cervello a riguardo del tema sono tanti, forse troppi.
Un blog non e' sufficiente per trattarli tutti. Ma grazie a Dio, con un blog, posso almeno informare sperando che qualcuno ogni tanto si soffermi e pensi.